Il 2013 si avvia rapidamente al termine e nel 2014 "festeggerò" dieci anni dalla laurea e cinque dal conseguimento del dottorato. Sono stata la seconda del mio anno a laurearmi, in luglio. Il primo fu in giugno, un altro geologo strutturale da 110 e lode. Il resto dalla sessione autunnale in poi. In media un anno di successo: quasi tutti laureati e con voti superiori al 100. Una classe fantastica che oltre i buoni risultati all'università vanta una spassionata amicizia che ci fa riunire almeno una volta all'anno. Ma che fine abbiamo fatto a quasi dieci anni dalla laurea? Ci dividiamo equamente tra chi condivide la precarietà e le emigrazioni forzate del mondo accademico e chi si barcamena nel privato, non sempre in Italia. I più fortunati hanno sputato sangue nelle compagnie petrolifere ma ora possono godere una relativa tranquillità e stabilità.
Quando iniziai il dottorato consideravo i giovani ricercatori il frutto della tipica carriera accademica: nel giro di nove-dieci anni dalla laurea, tra dottorato, borse e mesi "a gratis", erano riusciti ad diventare strutturati tramite concorso, più o meno blindato. Lavoravano molto, facendo anche quello che sarebbe spettato ai professori di prima fascia, forse nella speranza di uno scatto di carriera al pensionamento dell'ordinario di turno. Ammetto non fosse la mia massima aspirazione, preferendo dedicarmi alla ricerca pura o ad un lavoro pratico, ma mai avrei pensato che la mia generazione si trovasse prigioniera di un limbo apparentemente senza uscita. A dieci anni dalla laurea e cinque dal dottorato sono troppo vecchia per molti post-doc in Europa e troppo specializzata in un settore "inutile" per molti lavori nel privato. Ovviamente non considero nemmeno l'Italia, visto che quando me ne andai venni coscienziosamente informata di avere un biglietto di sola andata.
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Questa situazione, in realtà, è per proteggere proprio i giovani ricercatori, almeno nei Paesi trainanti in Europa: dopo il dottorato, o si viene assunti nel privato o si fa un, ribadisco un, post-doc di due-tre anni all'estero (USA, Canada, Australia, Nord Europa, Svizzera). Al termine di questo periodo di arricchimento nei migliori istituti al mondo, il giovane ricercatore torna in patria e viene inserito nel sistema. In Germania nemmeno i professori hanno contratto a tempo indeterminato, ma difficilmente verranno lasciati a casa se mantengono un certo standard, al massimo saranno costretti a spostarsi in un'altra città.
In Italia, invece, tutto questo non succede. È già tanto riuscire a terminare il dottorato in patria. Poi, se si vuole far ricerca, prima o poi si è costretti ad emigrare. C'è chi lo fa per scelta, per arricchimento, come sarebbe auspicabile, ma comunque sa che sarà un viaggio senza possibilità di ritorno. Intanto in Italia si continua ad assumere. Non chi è stato all'estero, ma chi ha tenuto duro, magari umiliandosi quasi a schiavo del prof. di turno che avendo poche pubblicazioni non potrà mai permettersi un ricercatore più attivo di lui. Per carità, non è così ovunque. Esagero. Concedetemi l'iperbole. È però vero che quei pochi che cercano d'internazionalizzare i gruppi di ricerca italiani incontrano mille ostacoli e ad un certo punto abbandonano per sfinimento. Eppure nella mia modesta esperienza la ricerca in Italia è ancora la migliore, nonostante i mezzi limitati, perché la preparazione media italiana è più ampia e ci contraddistinguono flessibilità, creatività, spirito di collaborazione, onestà, etica professionale, etc., tutte doti che all'estero c'invidiano nella corsa alle pubblicazioni.
Non mi lamento del sistema "scienza" che ha già tanti problemi, basti pensare che le case editrici si fanno pagare profumatamente gli abbonamenti mentre sfruttano scienziati e revisori gratis, sapendo che il numero di pubblicazioni è un criterio piuttosto oggettivo per valutare un candidato. Mi lamento di come nel nostro Paese stiamo perdendo una delle cose migliori. Non mi riferisco alla mia carriera, forse destinata a fallire in ogni caso, non siamo tutti nati per diventare ricercatori. Il 20 luglio 2014 non ci sarà nulla da festeggiare, anzi sì, forse: il rinnovo di un anno dell'attuale contratto, ossia del mio terzo post-doc, il secondo all'estero di un'infinita (?) serie. Non dovrei affatto lamentarmi, finché c'è lavoro c'è vita.