Saturday, March 11, 2017

Pane e cipolla

Mia madre cita spesso un modo di dire siciliano, che suona più o meno "mangio pane e cipolla ed entro egualmente", riferito al gatto che facendo finta di nulla compie azioni proibite cinque minuti prima, come saltare sulla credenza o giocare con una bottiglia vuota. L'idea del pane e cipolla è di un cibo povero, economico. In passato in Sicilia il pane non mancava, si faceva anche in casa, ma il companatico era merce rara e costosa, per cui ci si arrangiava con quel che c'era, principalmente verdura o frutta e talvolta anche solo con un goccio d'olio d'oliva e spezie. Non lontano dallo Schmalzbrot che servono qui assieme al vino, ossia una fetta di pane nero condito con strutto spalmato e cipolle. In Veneto, anche il pane, inteso come panini bianchi, era difficile da reperire per i poveri, per cui si sostituiva regolarmente con la polenta. Polenta e "tocio", ossia col sugo che profumava di carne o pesce ma di cui raramente ce n'era l'ombra, oppure con la soppressa (un tipo d'insaccato) o il formaggio nei giorni di abbondanza, o semplicemente col latte, anche a colazione. Almeno da quanto ricordo dei racconti dei miei nell'immediato dopoguerra, quando faticosamente l'Italia cercava di rialzarsi.

Da qui

Questa immagine, del cibo povero, del pane e cipolla, per me significa anche cena sbrigativa. Nonostante possa permettermi cibi più sofisticati, ogni tanto opto anch'io per pane e cipolla, perché mi piace. Ho personalizzato la ricetta. Cuocio le cipolle in padella con un goccio invisibile d'olio, un pizzico di sale ed un po' d'origano, poi le verso su pane tostato, talvolta con un formaggino spalmatoci sopra o con del formaggio in fette. Ovviamente il tutto mandato giù con mezzo bicchiere di rosso. Un piatto che riempie anche se non il massimo in fatto di valori nutritivi. Appunto, un piatto povero.

Gli italiani che arrivano all'estero di questi tempi si dividono secondo me in due categorie, quelli che mangiano "pane e cipolla" e quelli che non lo fanno. La denominazione "che mangiano pane e cipolla" non si riferisce certo all'alimentazione, ma all'atteggiamento. Si tratta di giovani e non più giovani connazionali che si spostano in un paese straniero senza lavoro e senza conoscerne la lingua, ma che da subito si adattano a lavorare come camerieri o lavapiatti, magari sfruttati da altri italiani, mentre in parallelo si pagano corsi intensivi di lingua e cercano di evitare i connazionali per immergersi totalmente nel nuovo mondo. Queste persone fanno enormi sacrifici ma alla fine ottengono quel che meritano, passando a lavori via via più qualificanti e con il tempo costrundosi una vita serena, con casa e famiglia. Quelli che si rifiutano di mangiare pane e cipolla, invece, arrivano egualmente senza lavoro e senza conoscere la lingua, ma pretendono l'aiuto degli altri già sul posto da qualche anno, poi si lamentano per il costo della vita in città, per lo sfruttamento subito dai connazionali, per le abitudini "barbariche" dei locali e per i sacrifici che non vogliono fare, illusi da un'idea di estero simile ad un paradiso ove chiunque venga accolto col tappeto rosso. Quest'ultima categoria di persone in genere non resiste a lungo e prima o poi torna in Italia, ove magari sarà costretta egualmente a mangiare "pane e cipolla", ma almeno immersi nella propria cultura.

La sottoscritta appartiene ad una terza categoria di connazionali emigrati, ossia quelli che lo fanno con un contratto prima di partire e che si spostano per scelta in un paese straniero. Mancando il fattore disperazione, anche se la scelta è stata comunque obbligata, non si arriva a questi estremi, ma il concetto del "pane e cipolla" come di atteggiamento volto all'integrazione ed al sacrificio resta.

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