La scorsa settimana sono tornata a Padova, ove ho studiato dall'età di 11 anni, per partecipare ad un workshop organizzato dai miei supervisori di dottorato. Non sono passati nemmeno nove mesi e vedo tutto con occhi diversi.
Il nuovo dipartimento funziona tipicamente all'italiana, nel bene e nel male, ma la progettazione degli spazi lo avvicina agli standard esteri. Il vecchio dipartimento, ove si è svolto il convegno, ha i suoi limiti essendo un edificio datato, ma stupisce sempre per la sua regalità di palazzo storico. L'organizzazione del workshop è stata ineccepibile: hanno dimostrato alla comunità internazionale che gli Italiani sanno uscire dal loro provincialismo in maniera eccezionale. Merito, però, del singolo ricercatore di ampie vedute e di due volenterosi assistenti. Quando cerchi il supporto della struttura rischi di prendere pesci in faccia.
Il convegno in sé è stato fantastico. Si sono riuniti geologi, ingegneri e fisici, dai padri della sperimentazione ai giovani studenti, dalla Norvegia al Sud Africa, dalla Nuova Zelanda alla California, per scambiarsi conoscenze ed instaurare collaborazioni cercando di capire meglio terremoti e simili catastrofi. Lo spirito di scambio in questa occasione è stato molto diverso da quello che mi sembra animare la comunità degli impattologi cui ora faccio parte, dominata da invidie, rivalità e gara a chi pubblica prima invece che per il progresso scientifico di utilità sociale. Questo mi ha procurato una profonda nostalgia per quello che facevo prima, ma poi ha rinnovato il mio entusiasmo per quello che faccio ora, con la voglia di cambiare questo cattivo atteggiamento e di coinvolgere per quanto possibile i ricercatori di quel settore in questo.
Per tutto il resto, tornare in Italia dopo un periodo all'estero è sempre un po' demoralizzante perché i motivi per cui si è lasciato il proprio Paese sono rimasti tali e quali. Segue qualche esempio. Essere costretti a prendere un intercity al prezzo doppio del regionale per non rischiare di perdere la coincidenza con un treno internazionale causa ritardi locali. Dover scomodare i genitori con l'auto per poter rientrare in paese dopo una cena in città perché l'ultimo treno è alle 21.30. Viaggiare su treni locali vecchi, sporchi e piccoli per il traffico attuale, pressata come una sardina in scatola. Venire costantemente lavata dalle auto che sfrecciano sulle pozzanghere al primo segno di pioggia. Guardare bene dove si mettono i piedi per evitare gli escrementi di cane sul marciapiedi. Sapere che nel nuovo dipartimento c'è una cucina fornitissima (finalmente!) ma che non si può usare perché il cibo fa odore. E queste sono piccole cose.
L'estero non è un paradiso, ma mi sembra che almeno offra qualche opportunità in più di realizzazione personale. Senza trovarsi quei piccoli quotidiani bastoni tra le ruote che alla lunga fanno passare la voglia di fare.
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