VIII-IX giorno: il ritorno
Per effetto del fuso orario il IX giorno sarà ridotto a poche ore, sarà il giorno più corto, da passare in aeroporto in attesa della coincidenza. Al mattino la pioggia non è cessata. Nonostante il meteo avverso sono andata al Golden Gate Park (a 7 km dall’omonimo ponte). Un museo era chiuso, un altro troppo costoso ma per fortuna il giardino giapponese era aperto e pure gratuito (i vantaggi di una sveglia all’alba)! Davvero interessante, ben curato e ricco di flora. Tornata poi al porto ho scoperto che il vecchio edificio era stato trasformato recentemente (dopo il sisma di Loma Prieta) in un grande centro commerciale di prodotti alimentari, in prevalenza italiani. Che bello! Sembrava di essere sotto il Salone a Padova! Infine sono tornata a China Town per vedere una della chiese più vecchie della città, la vecchia cattedrale. Miracolosamente sopravvissuta al terremoto del 1906 era stata poi distrutta dall’incendio che ne è seguito, ora è una missione cattolica per i cinesi. Dopo pranzo, però, stanca di camminare e stufa della pioggia, sono andata in aeroporto con largo anticipo. Qui ho incontrato altri partecipanti al convegno che si erano trattenuti un paio di giorni per visitare la città, tra cui un italo-francese che lavora in Germania. Il volo con la Lufthansa è stato di lusso rispetto all’andata con la United: posti più larghi, bagni spaziosi ed al piano di sotto (mi ha fatto un certo che fare le scale in aereo...), monitor personale con ampia scelta di film, programmi televisivi e video musicali (tra cui un edizione storica dell’Oratorio di Natale di Bach diretto da Harnoncourt per festeggiare i suoi 80 anni), cibo meno abbondante ma più di qualità, temperature più umane (con la United mi sono cotta... e mi avevano detto che avrei patito il freddo!)... e poi gli annunci in tedesco o in un inglese-tedesco perfettamente comprensibile al mio orecchia (talvolta anche in italiano... ma inascoltabile!). All’arrivo a Monaco ho avuto il primo impatto con le conseguenze del pessimo meteo in Italia, con voli cancellati e ritardi astronomici. Per fortuna Venezia aveva riaperto e dopo un volo avventuroso con un rumorossissimo aereo ad elica che ha attraversato nubi e tempeste (almeno così sembrava non vedendo nulla e ballando parecchio), per fortuna allietato dalle chiacchiere con un ragazzo friulano di ritorno dalla Cina ed una “collega” che sta facendo un dottorato in cotuteta Italia-Germania, sono finalmente atterrata a Venezia sana e salva. Miracolosamente (o forse semplicemente grazie alla Lufthansa) la valigia è arrivata integra ed è stata anche la prima ad essere scaricata!!! Questa si chiama fortuna!
VII giorno: In God we trust
Domenica, giorno del Signore, ma quella citata è la scritta che compare su ogni dollaro o frazione di esso. Per verificare la presunta fede degli autoctoni sono andata in chiesa. Ho trovato una concentrazione di chiese, dalla battista alla cattolica, dalla luterana ad una “universale” di cui non ho ancora capito la confessione. Prima di ascoltare la santa messa nella cattedrale cattolica, ho fatto un giro nella chiesa luterana, dove ho scambiato due parole con l’organista. Finalmente un organo meccanico in stile tedesco! L’organista, troppo gaio (“gay”) per i miei gusti, mi ha raccontato la storia dello strumento, non ancora terminato e fatto costruire dopo il sisma di Loma Prieta che ha danneggiato anche la chiesa. Nella cattedrale cattolica, invece, ho trovato il fine del mio pellegrinaggio organistico, ossia un Ruffatti a 4 tastiere. Alcuni maestri organari che avevano lavorato alla costruzione mi avevano suggerito di andare a vedere e sentire questo pezzettino di Padova affacciato sul Pacifico. L’organista e direttore musicale è un simpaticissimo anziano tedesco che suonando Bach e Buxtehude mi ha fatto dimenticare di essere negli USA e che l’organo era un Ruffatti (davvero sembrava tutt’altro strumento). Il resto della santa messa, molto lontana dalle nostre tradizioni, pur essendo celebrata da un sacerdote ispanico (quindi più comprensibile) mi è sembrata piuttosto teatrale, come tutti gli show religiosi o meno che popolano le tv di qui. Il coro della cattedrale contava troppe donne (20 a 3 circa) e dall’età media troppo avanzata per rendere onore alle pregevoli scelte dell’organista. I fedeli in chiesa non cantavano quasi (come in Italia) ma erano molto generosi durante le 2 collette (una per il mantenimento della cattedrale che costa circa $ 5500 al giorno - iniziare a risparmiare??? - e l’altra per l’attività musicale, che quindi non rientra nel primo conto). Da noi in genere gli organisti ed i musicisti in chiesa non sono regolarmente stipendiati, quindi nemmeno si pensa di chiedere alla gente una cosa simile... Nel pomeriggio mi sono dedicata agli ultimi acquisti sotto la pioggia, tra cui un libro usato della Partite di Bach per tastiera della Henle ed un giro in un mega centro commerciale di fronte al porto (Embarcadero). Cena nella solita atmosfera anni ‘50, ma essendo l’ultima sera qui mi sono concessa la birra locale (Anchor Steam) ed una fetta calda di apple pie. Deliziosa!
VII giorno: il bello di San Francisco
Terminato il convegno, ecco il primo giorno di vacanza. Al mattino ho preso un cable car che attraverso la nebbia mi ha portato su e giù per le colline della città, fino alla baia a Nord, a Fisherman’s Wharf. Qui le cose da vedere non sarebbero mai terminate... Alcatraz, i leoni marini, navi civili e militari (notevole la visita ad un sottomarino della II guerra mondiale, più claustrofobico di quanto immaginato dai numerosi film a tema), il museo della macchine da gioco dall’800 ad oggi (organetti, paesaggi animati, fino ai moderni videogiochi, ma terrificante che una volta pagassero per vedere riprodotte le esecuzioni capitali), il pier 39 (praticamente un paesetto del Far West - più ad ovest di così - fatto di negozi, musei e giostre costruito su un molo in mezzo alla baia), Ghirardelli Square con la celeberrima fabbrica di cioccolato, etc. etc. Dopo km a piedi avanti ed indietro per i moli, ho preso un autobus fino ai piedi del Golde Gate, il famoso ponte-porta tra oceano e baia. Un vero prodigio d’ingegneria! La bellezza dell’incontro tra natura selvaggia (alle spalle avevo il parco Presidio) ed ingegno umano è stata deturpata dal rumore del traffico (eppure si paga il passaggio sul ponte!) e dalle continue richieste di scattare foto... Continuando a camminare mi sono trovata esattamente sotto il ponte ove viene conservato un forte militare (Fort Point) costruito dagli Spagnoli ed usato dagli Americani fino all’ultima guerra. Nelle stanze era ricostruita la vita militare dell’epoca dell’oro e sono rimasta stupita nel vedere che già allora ad ogni militare era assegnato un lettone da una piazza e mezzo... Qui ho comprato un flauto di metallo con cui suonare allegre marcette militari e non solo. Il negoziante e custode del forte (riservista) aveva antenati da Pordenone, ma non parlava italiano. Al contrario di un artista di strada che parlava fluentemente 15 lingue, tra cui l’Italiano, anche se di primo acchito mi aveva scambiato per una tedesca... Dopo una coda di 1h per riprendere il cable car, attesa alleggerita da un cantante country ed un “mago” che si è liberato dalla camicia di forza, mi sono ributtata nel traffico commerciale delle feste natalizie. Qui si decorano come alberi anche le persone! Con spille al pungitopo, abiti e berretti rossi o verdi con profili bianchi, orecchini con slitte via dicendo. Per fortuna nessuno nota come ti vesti, alla moda o meno, forse per questo qualcuno esagera nell’estrosità. Dopottutto cos’altro c’era da aspettarsi da un popolo che costruisce grattacieli praticamente sopra la San Andreas e che traccia strade rettilinee non curandosi della pendenza?!?!
V giorno: dall’Europa finta alla vera Cina
Stamattina ho disertato il convegno (le sessioni che m’interessavano erano concentrate nel pomeriggio) e sono andata a visitare il Centro Civico, ossia il complesso di edifici istituzionali della città, dal Municipio all’Opera, dalla biblioteca civica al tribunale. A parte il Municipio (la solita copia del Campidoglio di Washington che a sua volta è una copia di San Pietro in Vaticano), gli altri edifici sono un misto tra il neoclassicismo ed il post-moderno europeo. Prima di arrivare al centro civico mi sono arrampicata a Nob Hill per vedere qualche casa in stile vittoriano (sembrava Inghilterra) e la Grace Cathedral (chiesa episcopale) che è una copia in miniatura di Notre Dame a Parigi. Nulla di eccezionale, chiesa da ricordare solo per i 3 organi e per le prove del concerto di campane dei bambini. Ma non hanno uno stile proprio da queste parti, a parte i grattacieli? Devono sempre copiare l’Europa quando vogliono fare qualcosa d’importante? L’unica cosa caratteristica qui sono le strade: dritte come un fuso per chilometri. Se ne sono letteralmente fregati delle colline, così ci sono pendenza spaventose lungo la medesima via. Dalla pianta sembra un accampamento romano (per niente un quartiere si chiama Castro, ma gli antichi Romani qui non sono mai arrivati)... di persona sembra un Luna Park, complici anche i Cable Car!
Per la cena ci si è riuniti in una trentina da tutto il mondo per festeggiare il pensionamento del prof. Shimamoto. Avevo sentito molto parlare di lui dai miei capi e dai colleghi ed avevo letto molti suoi articoli, ma non l’avevo mai conosciuto personalmente finché non è passato dal mio poster. E’ un genio, ma anche un paziente didatta, uno scienziato sempre curioso ed entusiasta ed un simpaticissimo giapponese caratterizzato da umiltà, pazienza e sorriso disarmanti. Non sarebbe mai stanco di lavorare, anzi soffrirebbe a stare a casa con la moglie, per cui ha già trovato un progetto per due anni a Pechino. Questo è un vero modello da seguire!!!
La cena si è svolta nel cuore di China Town, la comunità cinese più grande al mondo fuori dall’Asia. Piatti gustosi ed abbondanti, servizio impeccabile, ma forse un po’ cara per le mie abitudini ($50)... comunque la compagnia valeva la spesa! La serata si è chiusa con una birra in un’autentica bettola stile irlandese, offerta da un simpatico e giovane prof. inglese, ove finalmente si è parlato anche di qualcosa diverso dalla geologia e dal lavoro. Ci tegno a sottolineare l’anche, perché in realtà questa birra è stata l’unica occasione di parlare dei miei progetti per l’immediato futuro con il ricercatore di cui prima. Al contrario, con il mio prof. non c’è stato modo di parlare molto, visto che oggi zitto zitto ha abbandonato il convegno per tornare a rilevare... ma prossimamente sarà raggiungibile in ufficio... spero.
VI giorno: Fine del convegno
Oggi ultimo giorno del convegno, è tempo di bilanci. A dire il vero non ne sono rimasta poi così entusiasta. L’organizzazione, ribadisco, perfetta, ma la parte scientifica, il fine ultimo dell’incontro, mi ha deluso un po’. Troppi partecipanti e troppe sessioni comportano non avere tempo di fare nuove conoscenze e tessere nuove collaborazioni, ma implicano anche non avere buone discussioni scientifiche con chi della materia ne sa più di me, perché 10’ per le presentazioni e spesso nemmeno il tempo per le domande e 100 poster da girare in 2 h... non sono certo d’aiuto! Al contrario, in un convegno più piccolo, tipo il DRT, il tema è più focalizzato, ai coffee break ci si trova sempre i soliti e si parla, spesso continuando le discussioni iniziate al termine di una sessione orale, infine i poster restano appesi per 3 gg. e c’è più tempo per studiarseli, meditarseli e discuterne con gli autori.
Mi sembra che ai grossi convegni come l’AGU a San Francisco si vada per “farsi pubblicità”, propagandando il propri lavoro, e basta! Di conseguenza le sessioni sono determinate più dalla moda del momento che dal valore scientifico: ora l’argomento in voga è la paleoclimatologia ed il resto è out. Nel mio settore ho sentito la mancanza di sessioni sulla transizione duttile-fragile o sulla localizzazione della deformazione (ormai passate di moda) ma dei petrologi mi hanno manifestato addirittura la loro difficoltà nel trovare una sessione in cui inserire il loro contributo! Il terreno è decisamente superato, ma inizia a scemare anche l’interesse per i modelli numerici, ora tutti si danno agli esperimenti. E’ brutto dirlo visto che anch’io forse sto per fare il grande passo... Come per i modelli, alcuni esperimenti non hanno alcuna relazione con la realtà geologica e non servono a nessuno! Nel mio caso, com’è accaduto con il ricercatore geofisico con cui ho collaborato per un modello numerico, io “geologa” ho fatto da tramite tra le osservazioni microstrutturali ed i parametri richiesti dal modello. Non ho intenzione di dimenticare la natura, che dev’essere il costante punto di riferimento in questo tipo di ricerca!
Mi è sembrato di assistere ad una commercializzazione della scienza, complici anche gli stand delle case editrici o di strumenti tecnici o di università che hanno bisogno di studenti per rimanere in attività. Questa atmosfera comporta anche un estremo individualismo tipicamente americano. Ognuno si arrangia e pensa solo per sè od al proprio successo, tanto che non è raro che qualcuno addirittura si tenga per sé informazioni logistiche che potrebbero tornare utili ai colleghi più sprovveduti o alla prima esperienza. Di conseguenza, mai come questa volta ho sentito la solitudine, pur in mezzo a migliaia di persone con cui avevo argomenti di conversazione. Pure gli Italiani, che generalmente fanno comunità ovunque vadano, qui sembravano evitarsi! Effetto USA???
IV giorno: pioggia orizzontale
Il clima mite di San Francisco è proprio odioso: non sembra nemmeno Natale con questo caldo! Stamattina poi c’era una pioggerellina fine che sembrava più nebbia che pioggia, ma per fortuna l’aria non era così pesante come a Padova in giornate simili. Al termine dell’impegnativa sessione mattutina (dalle 8) e della sessione poster abbreviata, sono tornata in albergo per... dormire. Già, non ho ancora preso il fuso orario anzi ne risento di più ora che non il primo giorno (in cui poteva darmi l’impressione del veglione di fine anno). Il pomeriggio letteralmente casco dal sonno. Poi mi sveglio durante la notte fonda e mi metto a scrivere.
Sono ripassata dalla libreria di 4 piani per cercare un libro in inglese di ricette italiane da spedire all’amica giapponese. Tanta fatica per niente, tutte le ricette “italiane” anche se scritte da cuochi italo-americani o presunti italiani prevedevano almeno 4 spicchi d’aglio. Perché fuori dall’Italia associano la nostra cucina all’aglio? A me piace, ma molti italiani non lo possono soffrire e poi altera troppo i sapori, non va messo dovunque!
La cena davvero originale con una collega ed un suo amico trentino in un caotico ed autentico locale indiano-pakistano. Il posto era piuttosto spartano ma c’era la coda per entrare: sinonimo di buone porzioni e piatti gustosi. attese confermate, i piatti abbondanti erano molto piccanti, a base prevalentemente di carne o legumi e verdure, per fortuna il the al latte (o qualunque cosa fosse) “spegneva” il fuoco del peperoncino.
Al ritorno ho finalmente risolto il mistero dei gatti in vetrina. La prima sera ero rimasta scandalizzata a vedere folle di persone attratte da una vetrina di Macy’s con dei gatti all’interno, mi sembrava l’ennesima strumentalizzazione commerciale americana. Stasera ho letto il cartello: i gatti sono in adozione, vengono da un centro per animali abbandonati e chi si prende l’impegno li potrà portare a casa dopo le feste. Spero almeno che qualcuno controlli tra qualche mese che i genitori adottivi non se ne disfino all’arrivo dell’estate...
III giorno: il colloquio
Il giorno prefissato per il colloquio con un prof. (di solo 1 anno più vecchio di me, sono precoci da queste parti!) per una posizione di post-doc negli USA è iniziato malissimo, con un feroce attacco di depressione. Sono andata in una chiesa e poi sono scappata a vedere l’oceano (o meglio la baia di San Francisco, perché ero dal lato est). La lunga camminata ed il vento marino mi hanno rigenerata. Tornata al convegno (al mattino non c’erano sessioni di mio interesse) ho girato tra i poster e tra gli stand espositivi (raccogliendo gadget dalla Nasa per gli amici) preparandomi mentalmente al colloquio. Dopo una breve introduzione da parte del ricercatore che è stato co-supervisore del mio dottorato (e che non vedevo da mesi... nonostante ora lavori a Roma, a 500 km da qui), il colloquio si è svolto a pranzo (pagato dal prof. esaminatore perché era un suo “business” farmi l’interview) ed è terminato davanti al mio poster. Il suo progetto è molto bello ed è interessato anche a realizzare il mio (un’ideuzza semplice semplice, non certo un vero “progetto” a confronto). L’idea di finalmente mettere le mani in pasta in un laboratorio mi entusiasma e mi affascina e lui ha interessa ad avere qualcuno che faccia parte del lavoro manuale ma che anche si occupi delle microstrutture. Al 90% ho superato il colloquio, comunque mi farà sapere entro gennaio. Intanto resto in contatto con altre possibilità in Europa (rigorosamente fuori dall’Italia, in cui non c’è posto e che mi sta stretta ormai), altrettanto affascinanti come esperienze, ma più vicine a casa ed alla mia mentalità... anche se con minori speranze di successo. Gli USA sono un paese entusiasmante e “frizzante” (come l’ha definito il ricercatore) dal punto di vista lavorativo e scientifico, ma per me sono senza storia e per questo carenti culturalmente... e gli Americani sono troppo pieni di sè...
Al pomeriggio, prima della sessione orale che m’interessava, sono stata in prossimità del mio poster nell’unico giorno in cui era esposto. Ho ricevuto commenti positivi anche da due massimi calibri del settore ma nessuna critica costruttiva: convegno troppo grande, troppi poster, troppo poco tempo. Alla sera ho cenato in un posto dall’atmosfera anni ‘50, sembrava di essere piombati nel mezzo del telefilm Happy Days... mi aspettavo di vedere Fonzie comparire da un momento all’altro! La serata si è conclusa in una fantastica libreria a 4 piani con connessione wireless gratuita e bar incluso, in cui vendevano anche i mitici bastoncini di zucchero bianchi e rossi dei vecchi film in bianco e nero. Non li ho comprati solo per non ricevere poi i ringraziamenti della mia dentista.
II giorno: l’invasione dei geologi
I consueti disturbi intestinali da cambio d’aria e stress da volo hanno caratterizzato l’inizio del primo giorno di convegno. Sembrava di assistere ad un’invasione con 16000 persone dotate di cartellino di riconoscimento che si spostavano da un’ala all’altra del Moscone Convenction Center o che popolavano i giardini di Yerba Buena all’ora di pranzo. Era rappresentata mezza Europa, ma ovviamente gli Statunitensi erano i più numerosi, oltre a molti Giapponesi che faticano di più a venire in Europa. L’organizzazione del convegno è stupefacente: tutti possono leggere, studiare, seguire, presentare, attaccare il proprio poster, connettersi ad internet, discutere con colleghi di tutto il mondo, ristorarsi, etc. tutto mantenendo l’ordine e la disciplina autoregolamentata. Fantastico! Tra le varie sessioni ho visto qualche elemento del gruppo di Padova, scoprendo che c’erano anche altre persone rispetto a quante mi aspettavo. A parte un rapido saluto, nessuno ha tempo per la parte sociale e nemmeno per tessere nuove collaborazioni: ogni appuntamento va prenotato con largo anticipo o ... bisogna farsi odiare assediando chi ci interessa.
Breve parentesi. Generalmente in simili situazioni di permanenza all’estero, mi godo l’assenza di telegiornali deliranti ed inrisolvibili questioni politiche tipicamente italiane, però questa volta la mamma mi ha informata via sms dell’attacco al nostro premier. Anche gli altri italiani erano stati informati da amici o parenti in Italia. Non commento il fatto, ma è interessante notare che se succedesse un colpo di stato... noi lo sapremmo in ritardo nonostante l’evoluzione dei mezzi di comunicazione (chi ha tempo di guardarsi un tg nazionale tramite internet? soprattutto chi ne avrebbe voglia, impegnato in più interessanti attività?).
I Giorno: il giorno più lungo
Già, perché a causa del cambiamento di fuso questo giorno è durato 33 ore invece delle solite 24! Al mattino levataccia per prendere il bus da PD delle 6.25 per l’aeroporto di VE (a causa anche di un improvvido sciopero dei treni!), poi un quarto d’ora per capire come funziona il check in rapido della Lufthansa (una volta rodato, veramente efficiente), attesa del collega che aveva perso il bus, soliti problemi ai controlli per le scarpe rinforzate, colazione ed un’oretta di volo fino a Francoforte, deliziata da uno spuntino natalizio a base di Lebkuchen. Di Francoforte sicuramente da ricordare il salasso per il pranzo (in cui l’acqua costava più del panino!) e le operazioni d’imbarco della United Airlines, con attempate hostess che urlavano dirigendo il traffico umano da uno sportello all’altro fino al posto designato nella pancia di un enorme Boeing 747. Nella classe economica c’erano file da 10 posti e talmente fitte da non saper che fare delle proprie ginocchia. Volo lungo, 11h e 30, ed estenuante per non essere riuscita a dormire se non l’ultima mezz’ora, nonostante intervallato da 4 film (tra cui ho seguito solo UP che merita davvero) e da numerosi pasti e spuntini (sono andata avanti due giorni con gli avanzi). Da notare che i bagni erano sì molto stretti ma forniti di tutto il necessario e molto più puliti dei “cessi” degli Eurostar nostrani fino al termine del viaggio. All’arrivo nella calda San Francisco (15-20°C contro le temperature polari che lasciavamo in Europa) le procedure per l’ingresso negli USA ed il recupero della valigia, sono state più rapide del previsto. L’arrivo in città con un serivzio metropolitano ed il check in in albergo sono stati altrettanto rapidi. L’albergo è un delizioso edificio “old english” con camere spaziose, dotate di guardaroba e bagno (un po’ piccolo, ma con vasca enorme), radiosveglia, tv a schermo piatto, ventola a soffitto, regolazione indipendente del termo, bollitore e caffè, oltre a tavolo, sedia, poltrona ed un letto praticamente matrimoniale! Sazia dal cibo aereo, sono andata con un collega a bere una birra, ancora frastornata per il viaggio ed incredula di trovarmi negli Stati Uniti. Gli indizi che mi hanno confermato il sogno erano numerosi, dal grande albero di Natale illuminato nell’affollata Union Square ai mega centri commerciali aperti fino a tardi (uno su tutti, Macy’s); dagli scampanellatori dell’esercito della salvezza agli angoli delle strade alle limousine davanti agli hotel, dai grattacieli al vapore che esce dai “tombini” della metro, dai tipici contenitori per il caffè della Starbucks (che tutti sorseggiano per strada) ai vari stereotipi del cinema americano. Le strade sono percorse da un traffico umano continuo che schiva a fatica le centinaia di barboni; in molti propongono qualcosa di originale (cantano, suonano, ballano, lavorano a maglia o vestono il cane, etc.) altri espongono cartelli espliciti tipo “ca***, voglio bere”. Tutta quella gente si rispetta e s’ignora vicendevolmente: un altro aspetto del sogno americano. Unico “incubo” il cambio di fuso, che sonno! E fuori orario! Mentre al mattino sono sveglia alle 2!