Wednesday, May 13, 2020

De captivitate

La reclusione incattivisce. Ce lo siamo dimenticato, l'abbiamo volutamente ignorato, tutti presi a confidare nel cambiamento in positivo dell’uomo dopo questa esperienza. Figurarsi! Ce l’hanno insegnato non solo i carcerati, ma anche gli animali che teniamo in gabbia. Stare chiusi e non poter uscire (quindi non per scelta di vita) non nobilita l’uomo, non si diventa santi ed asceti, ma si riscoprono egoismo, invidia e cattiveria gratuita. I “buonisti” che ora incitano all’odio contro gli "haters" si mettono allo stesso livello. Ignorare sarebbe la risposta migliore. Dobbiamo per forza scaricare la rabbia e la responsabilità di qualsiasi ingiustizia (a parer nostro) su qualcun altro. Mi ci metto in mezzo anch’io, l’insofferenza per chi la pensa in modo diverso è aumentata esponenzialmente.
 
da qui
Ciò comporta la fine dell’altruismo, della generosità? 
No, continueremo a spenderci per gli altri, almeno alcuni continueranno a farlo, magari meno, magari cambiando le priorità. Quando uno vede il proprio operato vanificato, la frustrazione porta a non tentare più. Ecco, sostanzialmente siamo tutti frustrati, per la reclusione (cattività) e perché la vita non va come avremmo desiderato. Gli italiani all’estero sono frustrati perché non possono tornare in patria (non dico solo adesso, ma in genere per la questione lavoro) e si sentono ignorati dallo Stato che vorrebbero (no, non io) fosse “madre”. Altro punto, noi Italiani siamo sostanzialmente dei mammoni, dove termina la madre biologica inizia quella sociale dello Stato. Qualsiasi cosa accada, dalla catastrofe naturale all’effettiva inefficienza del governo, l’urlo comune è “lo Stato mi deve aiutare”. E perché? Essere italiani non è una scelta, l’ho già ribadito. Lo Stato si prende cura di noi, ci offre l’istruzione, fondamentale strumento di scelta, le strutture sanitarie che si occupano della nostra salute ed investe sul nostro futuro. Vorremmo ripagarlo col nostro lavoro, ma per alcuni di noi questo non ha funzionato e quindi siamo frustrati, ma non possiamo pretendere che lo Stato si prenda carico di tutte le nostre scelte. Senso di responsabilità individuale zero.
 
Siamo incattiviti, ma continuiamo a giocare allo sport nazionale. Non il calcio, bensì lo “scaricabarile”. È sempre colpa di qualcun altro. Anche quando una persona compie una scelta, gli altri devono giudicarlo, dando la colpa alla situazione, alla pressione psicologica, al capo, … ed ovviamente allo Stato. Al governo di turno, capro espiatorio per eccellenza. Non importa cosa faccia, verrà sempre criticato, per partito preso. Nella gestione della pandemia in corso ci si è superati. Se il governo minimizza e non fa nulla, allora è un incapace ed i morti pesano sulla sua coscienza, se per salvare vite blocca tutto, resta comunque un inetto perché non si vive di sola aria e la gente muore anche di fame. La colpa è sempre di qualcun altro. Critichiamo l’atteggiamento del presidente degli USA, che fomenta teorie complottiste contro la Cina, e dimentichiamo che un governatore nostrano, considerato “eroe”, qualche mese fa fece lo stesso. Ci si aggrappa al “portavoce” di turno della nostra frustrazione e rabbia di non poter fare quel che vorremmo. Quando torneremo "liberi", scaricheremo altre colpe, come lo spigolo del tavolo giusto tra le dita del piede o il ritardo della posta o il disservizio dei mezzi pubblici o lo sciopero aereo sempre e comunque sul nostro prossimo, ma magari con meno animosità, perché non saremo incattiviti dalla prigionia (volontaria e di responsabilità).
 
Esempio pratico degli effetti della cattività:
Una ragazza ha chiesto su un social dove potesse trovare delle mascherine di stoffa, visto che non si sa fino a quando sarà obbligatorio indossarle nei luoghi pubblici in Austria. Una signora le ha risposto in tono paternalistico suggerendole di riformulare la domanda, dicendo “fino a quando porteremo delle mascherine per proteggere gli altri dalla diffusione del virus nel caso si sia ammalati senza saperlo”. La ragazza della domanda non voleva farne una polemica, non aveva criticato il regolamento, ma improvvisamente le è stato affibbiata la nomea di quella che polemizza sulle decisioni del governo. Penso che in tempi “normali”, si sarebbe semplicemente risposto alla domanda suggerendo dei negozi ove trovare il prodotto cercato.

Sunday, May 3, 2020

Iconografia di una videochiamata

Nell'ultimo giorno ufficialmente a casa, prima di riprendere (non si sa per quanto) il quotidiano spostamento casa-uffcio-casa, dedico un post ad un argomento particolare. Da quando si è tutti rinchiusi in casa, capita più spesso di gettare un’occhiata negli appartamenti altrui. Non parlo di spiare i vicini dalla finestra, non mi permetterei mai, inoltre sono orgogliosa delle mie tende. Mi riferisco, invece, alle videochiamate. Persino la Süddeutsche Zeitung ha dedicato un articolo al tema. Non è raro vedere personaggi della TV, del teatro e del mondo musicale rilasciare interviste o recitare/suonare dalla propria abitazione. È stato mostrato di tutto, dalle terrazze assolate alle cantine buie (sì, c’è chi trasmette dalla proprio cantina, forse perché l’acustica è migliore), dai salotti biedermeier a quelli minimalisti ed ipermoderni. Lo sfondo preferito è la classica libreria, per mostrare di essere persone acculturate. Una differenza fondamentale tra italiani e stranieri non è tanto nel modo di arredare il proprio appartamento (alla fine sento prevalentemente mie coetanei che vivono da soli o quasi, quindi tutti fruitori di Ikea e simili), quanto la curiosità ai dettagli nella casa degli altri. Gli italiani (anche maschi) notano e commentano come me lo sfondo degli interlocutori, gli stranieri non si pongono il problema o almeno non lo lasciano trasparire (articolo di costume a parte).

Una mia foto di Lochness, circa otto anni fa, uno sfondo ideale.
Ovviamente mi sono domandata anche che impressione faccia il mio appartamento nelle videochiamate. L’aspetto più evidente, a mio parere, ma può essere che gli altri non lo notino, è la presenza imponente di lavori artistici ad uncinetto: sulle tende, sui cassetti della libreria, sul divano, sul tavolino della sala, etc. Posso girarmi in tutta la stanza, un lavoro all'uncinetto verrà sicuramente inquadrato. Il secondo aspetto, invece fattomi notare da più d’uno, riguarda i colori vivaci. Rispetto alle librerie Ikea bianche o nere lasciate spoglie, la mia è un tripudio di contrasti, con cassetti arancioni, cimeli di ogni colore e fantasia, decorazioni a maglia, uncinetto e ricamate con colori accesi. Pensando a questo, evito videochiamate di lavoro con sfondi troppo personali. Controllo lo sfondo prima di chiamare, inquadrando in genere qualche parete bianca con al massimo un puzzle paesaggistico, niente di esuberante. Evito anche simboli religiosi, per non urtare l’interlocutore. Nascondo accuratamente stenditoio, aspirapolvere, prodotti per la pulizia e disordine vario, oltre ad evitare assolutamente la camera da letto (amata dagli statunitensi, a quanto sembra) ed il bagno come luogo da cui trasmettere. Questo perché ho un mio appartamento. Se fossi ancora nella casa dei miei (ma non nello stesso appartamento con loro), avrei probabilmente videochiamato dalla cucina o dal salotto (ambienti neutri) o dalla camera, ove si trovava anche la scrivania. Nel caso della camera, però, non avrei inquadrato il letto (troppo privato), bensì l'organo.

Ed i miei amici e conoscenti? Col bel tempo, le terrazze vanno per la maggiore (tra i non italiani e chi si collega con lo smartphone, ovviamente in caso di bel tempo) assieme ai salotti (italiani) o qualsiasi stanza in cui si trovi il computer. Qualcuno forse senza accorgersene mostra i panni stesi sullo sfondo (sempre maschi) e la cosa non mi disturba affatto, anzi mi dà un segno d'intimità con quella persona (anche se si tratta di un prof.) che non si vergogna di far vedere un aspetto privato della propria vita... purché sia completamente vestito, c'è un limite da non oltrepassare, soprattutto in chiamate di lavoro. Alcuni programmi per videochiamate offrono la possibilità di sfocare lo sfondo o di usare immagini a scelta. Finora quasi nessuno dei miei contatti ha sfruttato tale opzione. Forse perché la maggior parte delle mie chiamate erano serie, non c'era tempo per giocare. Le prossime saranno probabilmente dall'ufficio, tra mobili storici e scuri, tranne nel fine settimana, quando solo i parenti stretti e gli amici saranno ammessi nel mio soggiorno multicolore.

Monday, April 13, 2020

Why did I take a vacation before Easter?

I decided to take a few days vacation during the Holy Week. All my friends and colleagues asked me why. I am allowed to work from home, I was not forced to use vacation days by my employer, as unfortunately happened to some friends and colleagues. Of course, I didn't go anywhere, traveling is not even permitted. Why did I take a vacation, then?
 
Reason 1. I’ve been keeping my daily routine: waking up early, breakfast, shower, dressing, then sitting at my desk (table in the living room) until late afternoon, with a short lunch break. I am saving the time to go back and forth from the office, but I feel the pressure that I have to work. My creativity was low as well as my productivity. I realized that I needed a break. Until now, it was provided by a trip with friends, an evening at the restaurant or at the theater, or even the coffee break with my colleagues.

Reason 2. I wanted to celebrate properly not only Easter (including the Triduum), but also my 40th birthday. In other times, I would have travelled to Italy or my parents would have visited me. In any case, I would have taken some days off. Even though I stayed home, I wanted baking cakes and cooking family recipes, calling (or being called by) family and friends, virtually attending religious services, etc. During this isolation time, every day is the same as the other, but these dates require to be different. By the way, some friends found the way to surprise me despite the seclusion, making these days unforgettable.

Reason 3. I know that it doesn't bring anything to the colleagues that were asked to use their vacation days, but I wanted to show a sign of solidarity. I see the point of our employers. We scientists can still deliver our products (papers, proposals, etc.) from home, even though soon or later, we will run out of data and ideas without accessing samples and labs, but for now, we just need a laptop and a reliable internet connection. Even as guest lecturer at the university, I can continue to provide my classes. Technicians cannot work from home. The instruments they need are not available in any shop and cannot be transported also for safety reason (size, weight, high voltage, etc.). It is even worse for other categories, like people working on short term contracts in theaters or opera houses, people working in museums as watcher in the exhibition or in the ticket shop, hair dressers, cleaning companies, etc.
 
I must admit that, despite the situation, I enjoyed these days off and I got back my creativity and enthusiasm for working in science. I hope that the next time I'll take vacation will be for travelling abroad (by train, as usual), for meeting again my parents, and for celebrating with friends the end of this difficult period.

Sunday, March 22, 2020

La nostra compagnia

Non ne posso più! Non di stare a casa, ma di sentire gente che non sa come passare il tempo, che si lamenta di non poter uscire, che s'inventa scuse pur di andare fuori. Non ne posso più degli appelli di personaggi famosi che sembra che per la prima volta scoprano quanto l'uomo sia fragile e quanto il tempo e le relazioni umane siano importante. Per tacere delle iniziative austriache che mettono a disposizione uno psicologo per la difficile solitudine e si preoccupano per il previsto aumento delle violenze domestiche. Non ne posso più di leggere di fantasiose teorie sull'origine e la diffusione del virus o di ancor meno provate cure miracolose. Sembra che la gente abbia paura di ritrovarsi da sola con se stessa e cerchi disperatamente delle distrazioni dal pensare a sé ed al silenzio esteriore. 

Il gatto dei miei in un momento di meditazione.
La sottoscritta è in qualche modo abituata a tale solitudine, sia perché mi è capitato in età adulta di prendere una malattia contagiosa e quindi di restare in isolamento per due settimane, sia perché ai tempi di Bxl la mia vita sociale era pari a 0.01 (ossia uscivo una sera ogni venti giorni). Inoltre ho sempre subito il fascino del ritiro, tipo convento, senza per forza esservi rinchiuse, ossia del tempo del silenzio, della lettura, della meditazione non in senso orientale. Non mi sono mai annoiata con me stessa, c'è sempre qualcosa d'interessante da scoprire. Proprio su queste pagine ho raccontato più volte di tali momenti di riflessione: 2011a, 2011b, 2014, 2015 e 2019. Inoltre, da emigrata, sono pure abituata a mantenere i contatti con parenti ed amici tramite videochiamate e chat.

A dirla tutta, non ho nemmeno tutto quest tempo libero. Non sono in vacanza, né in malattia (per fortuna). Semplicemente lavoro da casa. Mantengo i ritmi quotidiani, compresa la sveglia. Risparmiando i tempi di viaggio e riducendo le pause con i colleghi, mi trovo più tempo per suonare la sera, per la gioia dei miei vicini. Rimpiango solo la mia sedia nuova in ufficio, molto più comoda di quella di legno Ikea del mio soggiorno, il mio microscopio e qualche pranzo già pronto nella cantina vicino al museo. Ho la fortuna di lavorare nella scienza a dipendenze dello stato, ciò significa che lo stipendio (per il momento) non viene decurtato e che molte delle mie mansioni possono essere svolte da remoto.

Il mio solitario microappartamento in  un soggiorno in Giappone.
Pensiamo a chi non ha la stessa fortuna, come i colleghi le cui aziende sono costrette a chiudere, ai musicisti e tutti coloro i quali lavorano nello spettacolo, improvvisamente senza ingaggi, a chi lavora nella ristorazione o nel commercio ed ai liberi professionisti. Pensiamo a chi è costretto a lavorare lo stesso, tra mille difficoltà in più rispetto al solito. Pensiamo a chi è comunque costretto in isolamento per mesi, magari a causa di una malattia o perché sotto scorta o perché in un paese in cui imperversa una guerra. Non si tratta di guardare chi sta peggio, ma di saper apprezzare e sfruttare in positivo ogni istante che ci è donato. Abbiamo un'occasione unica per migliorarci, almeno nel modo in cui vediamo noi stessi. Senza scappare e senza rifugiarsi in pretesti.

Monday, March 2, 2020

10 anni, 10 years!

Sono passati esattamente 10 anni da quando ho preso il biglietto di sola andata per l'estero. Rispetto ai primi tempi, non mi mancano più le abitudini che avevo, la routine del paese di origine. Altro record, l'appartamento in cui vivo ora è quello in cui ho vissuto più a lungo (quasi 4 anni) dopo la casa dei miei in Italia.

In questi 10 anni ho cambiato due nazioni e quattro appartamenti. Ho viaggiato molto in Europa, in treno ed in aereo, scoprendo nazioni in cui non ero mai stata. Sono andata anche fuori dall'Europa, per lavoro, capendo quanto profondamente europeo sia ognuno di noi, per la storia che ci ha forgiato. Sono stata malata ed ho sofferto la solitudine del migrante, ma ho anche preso parte a diverse iniziative tra italiani. Ho fatto amicizie che durano oltre le distanze. Ho conosciuto persone con cui ho percorso solo un breve tratto di questa esperienza ed altre con cui mi confronto sin dal primo anno. Ho imparato altre lingue e di conseguenza un altro modo di pensare. Sono estremamente diversa dall'insicura ragazza che ha lasciato l'Italia per lavoro 10 anni fa. Né migliore né peggiore, probabilmente, semplicemente un'altra, come parecchi coetanei, nella società mobile di oggi.

Col tempo ho imparato ad amare Vienna, ma sono dovuto passare da Bruxelles per capire che volevo tornarci. Senza esagerare, Vienna ha parecchi difetti e comprendo che possa essere odiata da molti, al pari di come io ho detestato Bruxelles, però per me resta la città in cui ho scelto di stare. A fagiolo capita un articolo di "Der Standard",  che presenta un sondaggio: quando ti sei sentito "a casa" a Vienna? Per questa festa dei 10 anni, posso rispondere alla domanda. Ci sono stati parecchi momenti in cui mi sono sentita "a casa" in questa città. Dal primo istante per quanto riguarda la pulizia, l'ordine ed i mezzi pubblici. Col tempo, quando ho capito di lamentarmi in continuazione come i viennesi (e le mie critiche hanno pure un seguito, nel senso che le segnalazioni di disfunzioni o errori vengono prontamente prese sul serio). Quando ho scoperto con sorpresa di non essere l'unica che parla da sola (no, pensa a mezza voce) per strada o che canticchia arie sacre e brani d'opera lungo i marciapiedi per farsi compagnia. Quando incontro locali che hanno un titolo scientifico ed uno musicale (o almeno un interesse tale da saperne abbondantemente) e con cui posso saltare da un argomento all'altro senza farmi riguardi. Quando do informazioni sulle strade e sulle fermate della metro e del tram cose se avessi sempre vissuto qui. Quando ho fatto la conversione della patente. Quando ho iniziato ad usare parole dialettali viennesi perché mi ricordano quelle padovane, fino a tenere un seminario scientifico in tedesco parlando velocemente come in italiano e riuscendo persino a fare un paio di battute (cosa che invece non ero ancora mai riuscita a fare nella mia lingua).

Per ognuno è diverso. Ci sono connazionali che dopo più di 10 anni a Vienna sono rientrati in Italia. Non vi ci sono mai sentiti "a casa". La sottoscritta, invece, sa di essere straniera e che nemmeno in una vita sarà mai pienamente integrata, ma si sente anche nel proprio ambiente naturale. Come festeggerò questo anniversario? Andando al lavoro, in una città divisa tra fatalismo e paura. Niente di speciale.

Sunday, February 16, 2020

Planetologia a Padova

Un anno fa presi parte al convegno nazionale (italiano) di planetologia a Firenze e pensavo che la mia esperienza con la comunità terminasse lì. Invece quel convegno fu l'inizio di varie collaborazioni che mi hanno convinta a partecipare pure all'edizione di quest'anno, anche perché si sarebbe tenuta nella città in cui sono nata ed ove ho studiato, Padova. Ottima occasione per stare dai miei un po', facendo la pendolare come fatto per 19 anni. Quanto sarà cambiata la mia città negli ultimi 10 anni (ossia da quando vivo all'estero?). Ecco le mie impressioni ad una settimana esatta dal ritorno a Vienna.

Santa Giustina dalla Specola
Rispetto all'anno scorso, non avendo le aspettative della prima volta, ho fatto un bilancio piuttosto positivo del convegno. Le uniche "critiche", se possibile, sono: 1. sessione poster in sede separata e quindi sacrificata/ignorata, 2. prevalenza della parte astronomica da lunedì a giovedì, con le meteoriti relegate al venerdì mattina (c'erano più partecipanti di quanto immaginassi, ma comunque la metà del resto del convegno) e 3. la costituzione di una società italiana di planetologia che consideri di "serie B" i membri che lavorano all'estero. I perenni ritardi e l'autoreferenzialità di alcuni non mi hanno irritata stavolta, ero preparata. Come anche il tradizionale sciopero ferroviario ed aereo che ha costretto più di qualcuno a cambiare piani all'ultimo momento. Anche questa volta, oltre a parecchie presentazioni di ottima qualità, ho apprezzato la possibilità di incontrare di persona scienziati con cui spero di collaborare/collaboro da remoto e di conoscerne altri di cui avevo solo sentito parlare. Nonostante la costante scarsità di mezzi, la ricerca in Italia resta di altissimo livello, grazie alla buona volontà di alcuni.

Sempre compresi nel convegno c'erano la visita guidata alla Specola e la cena sociale al Pedrocchi. La prima è stata molto bella. Siamo stati premiati da una giornata di sole, priva di nebbia. La passeggiata attraverso il centro città, la storia dell'osservatorio e dell'astronomia a Padova, la vista dalla torre di tutta la "mia" terra ed il pranzo "tradizionale" con i bigoli hanno reso la pausa dal convegno memorabile. Il caffè Pedrocchi ha un valore simbolico per me ora, perché nel 1848 fu teatro di una piccola rivoluzione contro l'occupazione asburgica. Buffo che ora lavori proprio al museo voluto ed inaugurato (come edificio) da Cecco Beppe ... ehm, il Kaiser Franz Joseph. Il Pedrocchi è un ambiente storico e chic, cibo buono, ma purtroppo apprezzato a metà, sia perché la "musica" di sottofondo ed il volume della conversazione rintronavano parecchio, sia perché ho dovuto andar via prima del secondo, causa carenza di mezzi pubblici nelle ore serali/notturne. Certe cose di Padova non cambiano mai.

I nostri portici
Durante la settimana, ho preso parte pure a due eventi "collaterali". Il primo è stato l'assistere ad una lezione del mio maestro d'organo. L'ha tenuta in francese, ma è stata egualmente illuminante e dominata dalla nostalgia di quando seguivo il suo corso di perfezionamento da allieva. Il secondo è stato tornare a Bologna dalla mattina alla sera per trovarmi con un amico di lunga data che è venuto apposta da Roma. Bologna ha un fascino unico. Peccato non sia conosciuta dai turisti al pari di altre città italiane. Peccato anche che i giovani d'oggi non sappiano sfruttare i mezzi moderni per informarsi... qualcuno aveva scambiato una meridiana astronomica per un meridiano...

Il tempo è passato e non torna indietro. È stato bello studiare a Padova, mi sono divertita tra geologia ed organo, girando in bici ed a piedi per i quartieri centrali della città. È stato bello ora rivivere lo stress da pendolare, le corse sul ciottolato, le frittelle e le tradizioni di carnevale, etc. ma è stato anche triste rivedere la nebbia, scoprire che molti negozi cui ero affezionata non esistono più, trovarmi "straniera" su un autobus nuovo ma frequentato quasi esclusivamente da immigrati ed anziani, come negli USA, vedere l'assurda moda attuale (a Vienna arriverà tra 20 anni) ed essere delusa da come è cambiata la società. Osservazioni che hanno presto cancellato il momento di nostalgia, sostituendolo con la consapevolezza che al momento sto bene a Vienna. Padova è stata una parte importante della mia vita, ma ormai appartiene al passato, anche per mia scelta.

Saturday, January 25, 2020

Alla ricerca della "mia" parrocchia

All’inizio è stato facile, andavo a catechismo nella parrocchia veneta cui appartenevo per residenza. Non è stata un’esperienza particolarmente felice, almeno negli ultimi anni, quando andavo già a scuola in città e cambiavamo più catechisti che spazzolini da denti. Gli ultimi due, in coppia, di poco più anziani di noi adolescenti, mi mandarono a casa con questa motivazione:-ne sai più di noi, cosa vieni a rompere- La mia conoscenza derivava da una bella Bibbia a fumetti di Famiglia Cristiana regalatami dai nonni. Così colsi l’occasione al volo per risparmiarmi quell’ora al sabato di rispostine già fatte, prive pure della profondità teologica del Catechismo di San Pio X. Tanto avevo già fatto la Cresima. Seguì qualche anno di pellegrinaggi di chiesa in chiesa, bazzicando spesso dall’Arcella per la Santa Messa, vicino a dove abitavano i nonni.

L'Arcella, col suo imponente campanile.
Per un caso fortuito (no, c’era sicuramente l’intervento divino), inizia a frequentare una scuola di musica nel paese vicino che era ospitata nei locali della parrocchia attigua. Qui, l’insegnante di solfeggio mi invitò ad entrare nel coro parrocchiale che dirigeva. Fu l’inizio di un lungo periodo in cui cantavo nel coro, maturavo la mai sopita passione per l’organo e frequentavo la parrocchia, almeno per la Santa Messa. Poi il direttore di coro ruppe col parroco, la scuola di musica si trasferì altrove ed io… entrai in conservatorio per studiare organo. Avevo bisogno di uno strumento ove esercitarmi. Dopo varie ricerche, approdai nella chiesa principale del mio paese, l’unica dotata di un organo a canne decente (non eccelso, ma suonabile). Il parroco dell’epoca mi definì “manna dal Cielo” per il servizio offerto, ossia accompagnare i canti a messa, prima al mattino presto e poi nella messa di “serie B”, come lui stesso definì la vespertina perché prevalentemente frequentata da gente fuori parrocchia, ma mi disse pure che per lui potevo pure essere musulmana, perché non ero “della sua parrocchia”. La differenza era di ca. 1 km in linea d’aria, il paese è diviso soltanto dalla ferrovia, altrimenti sarebbe un continuum di case. Niente da fare. Ne consegue che andai a suonare per 10 anni, senza mai “frequentare” la parrocchia. Non conoscevo nemmeno gli altri organisti, quando proponevo un incontro veniva l’orticaria al parroco. Vedevo più spesso l’organaro (termine locale per definire il costruttore e restauratore di organi a canne) dei colleghi. Grazie alla musica, ho avuto modo di conoscere parrocchie diverse del circondario, ma in tutte la risposta era sempre la stessa: non sei della nostra parrocchia, quindi presti un servizio e fine. Paradossalmente, negli stessi anni mi sono sentita più accolta dalla comunità luterana di lingua tedesca, presso la quale accompagnavo il culto nei mesi di picco turistico.

Arrivò il momento di lasciare l’Italia. A Vienna mi ritrovai a pagare le tasse per la Votivkiche ove non andavo a messa, sia perché all'inizio faticavo a comprendere il parroco maltese e sia perché d’inverno vi ci si gelava. Preferivo la comunque vicina Alserkirche, il cui parroco di origine parimenti straniera era più comprensibile e l’architettura barocca tirolese più familiare. Presi pure parte a qualche iniziativa culturale della parrocchia. Come organista suonavo in diverse chiese della città, ma nessuna mi dava l’impressione di posto accogliente. Entrai nel coro della Lutherische Stadtkirche per l’opportunità di prendere parte all’esecuzione di cantate di Bach, ma per un periodo mi sono sentita più legata a questa comunità di quanto non fossi alla mia parrocchia di residenza.

Alserkirche.
Poi mi trasferii per lavoro a Bruxelles. Il primo anno mi appoggiai ad una della comunità cattoliche italiane. La scusa fu sempre l’organo, anche se durante la messa suonavo un armonium datato per “accompagnare” il grattaform… ehm… il chitarrista (che in realtà se la cavava bene nel suo repertorio e cantava egregiamente, semplicemente non era il mio stile) ed il coretto delle signore. Col trasloco un po’ in periferia ed il cambio del missionario, sospesi la frequentazione. Provai ad inserirmi nella mia “parrocchia”, ma ero (e resto) allergica al francese e la comunità fiamminga era in via di estinzione (il più giovane a messa avrà avuto 70 anni e non era il celebrante). Per illuminazione divina scoprii la comunità cattolica di lingua tedesca. Non solo la chiesa (una cappella minimalista, moderna, ma accogliente) era relativamente vicina, non solo potevo andare ad esercitarmi su un organo meccanico, ma l’intera comunità si è rivelata assai accogliente, pure nei confronti di una straniera che balbettava la loro lingua. Sono entrata nel gruppo degli organisti, poi nel coro ecumenico e saltuariamente partecipavo ad altre iniziative della comunità. Per due anni ho fatto esperienze musicali e religiose istruttive e divertenti. Frequentavo la parrocchia anche quando non dovevo suonare e, dopo aver iniziato a capire bene il parroco tedesco, ho cominciato anche ad apprezzare le sue prediche. Una comunità moderna, colta e pure affettuosa (caratteristica che forse non mi sarei aspettata dai tedeschi).

Infine, quasi quattro anni fa sono tornata a Vienna. Da allora sono alla ricerca della "mia" parrocchia. Ora pago le tasse per l’Alserkirche (per residenza), ma ci vado raramente, complice il cambio di parroco, molteplici variazioni dell'orario delle messe e l’accoglienza della scismatica comunità italiana, per tacere dei frati dalle prediche fantasiose (dalle agiografie alle barzellette anti-Germania) od incomprensibili (sono anch’io straniera, ma leggere un testo senza capirlo è triste). Ho provato ad entrarci offrendomi come organista, senza successo. Vado più spesso nella Votivkirche, ove finalmente comprendo il parroco maltese ed apprezzo la sua umanità. Ciononostante non riesco ad inserirmi nella vita parrocchiale e non me ne sento parte. Come organista ho ricominciato i giri per le chiese della città ed ho trovato posti simpatici con parroci interessanti (come nella Canisiuskirche e nella St. Johann Kapistran) ed altre scostanti (come Alt-Simmering), tutte con degli strumenti divertenti da suonare, ma in nessuna mi sono sentita invogliata a far parte della comunità.

La ricerca continua. Non mi basta trovare un parroco dalle prediche interessanti ed illuminanti. Per questo basterebbe trovare delle riflessioni su internet. Vorrei trovare una comunità cui far parte, nel mio piccolo, in cui conoscere persone di diversa età ed origine con cui discutere di società, cucina, viaggi, ma anche di teologia (per quel che mi permette il mio tedesco limitato in campo filosofico). Troverò la "mia" prima o poi tra le decine di parrocchie della città...